Quota 121, Monfalcone (GO), Friuli-Venezia-Giulia

 

Procediamo tra i filari delle viti, con la testa china nel profumo della terra e con gli occhi rivolti verso le pallide colline del Carso, cortina azzurra all’orizzonte azzurro, serena. […] Le prime ore del pomeriggio saliamo sulla Rocca, ai soliti avamposti. I ricoveri sono sempre quelli: tronchi, sassi, terra; buche ombrose come tane. Le prime volte odoravano di pino tagliato di fresco, ora sanno, ogni volta più, di marciume. Il silenzio dell’artiglieria fa un effetto ancora più strano quassù, sembra innaturale e ci mette una sottile inquietudine nei nervi. […] Oltre il sottopassaggio della ferrovia, saliamo la collina a destra della Rocca. Il cielo è nuvoloso, il paesaggio livido. Il sudore si raffredda sulla fronte e sul collo. La via è ripida e sdrucciolevole per il fango, seminata di cartucce, di pagnotte macerate dalla pioggia; qua e là qualche tascapane, qualche zaino. I feriti continuano a venir giù, soli o reggendosi a qualche compagno. […] Dall’apertura della trincea vedo un cielo livido con masse di nuvole nere. Il vento rinforza e si fa bora, sibila e ruggisce contro gli spigoli, s’ingorga furiosamente nelle feritoie. I tronchi dei pini bruciati storcono e agitano nell’aria i loro stecchi come scheletri impazziti, i cespugli si squassano quasi volessero uscir dalla terra. […] Ho l’impressione che queste nostre trincee, eminenti sul ciglio della collina, siano come offerte sulla palma d’una mano al capriccio e al tiro del nemico. […] La salita rocciosa è tutto un brulichìo di ombre, la roccia stride sotto i piedi, crepitano e ruzzolano i sassi; sugli altri rumori s’ode l’ansare dei petti. All’altezza d’una guancia, e, dall’altra parte, sotto un fianco m’accompagnano oscillando le baionette dei compagni che mi seguono dappresso, urtandomi a ogni piccola fermata […]. Sotto la cima sostiamo: la compagnia si distende. Davanti a noi, basso, il profilo oscuro del crinale e, sopra, un cielo lampeggiante, ora smorto ora illividente nel riflesso dei razzi; forte odore di zolfo nell’aria, che, rinnovata dal vento, pur torna tosto a imbeversi dello stesso odore […] ma ecco avanziamo e, dopo breve cammino, sprofondiamo sino alla cintola in un fosso: è la trincea. […] Non ho provato mai un sentimento cosiffatto di tenerezza […] per questa povera, nuda terra, sassosa e piena di ferite, che ci dà riposo e protezione.

La “quota 121” è il punto più alto del Carso. Baluardo austro-ungarico, la quota passò nel 1916, dopo una delle battaglie dell’Isonzo, sotto il controllo delle truppe italiane. Qui fu ubicato un sistema molto complesso di trincee, fortificate dai soldati italiani. Giani Stuparich, scrittore triestino arruolato come volontario nel 1915, combatte sul Carso. Guerra del ’15 è il resoconto del giovane combattente, impegnato proprio a “quota 121”. Il Carso gli è familiare e, in generale, le montagne friulane sono per Stuparich, conforto e sincerità (così si legge in suo altro racconto, intitolato Ritorno ai monti: “la montagna quale un compenso di verità per la vita intessuta di menzogne… la rispondenza della realtà esteriore con quello che abbiamo di più puro nel nostro interno, è perfetta. Non vi è inganno, non vi è odio… tutto vive in un’aria di schiettezza”. Si rimanda, in generale, ai numerosi scritti di Stuparich dedicati alle montagne). Ancora a Monfalcone, all’inizio della salita verso la quota, l’atmosfera è “serena”, benché il pallore delle colline, preannunci un panorama destinato a cambiare; salendo, infatti, questo s’incupisce e introduce il lettore in un ambiente tetro, amplificato da una costante isotopia della morte (“livido”, “nere”, “scheletri”, “smorto”, “illividente”), che troverà conferma e massima espressione nel resoconto dei combattimenti in trincea una volta raggiunta la quota, combattimenti evocati in questo passaggio dai “pini bruciati”, dal “riflesso dei razzi” e dal “forte odore di zolfo”. Va notata l’importanza delle dimensioni auditiva e olfattiva (caratteristica della letteratura della Grande Guerra): si passa dall’“orizzonte azzurro”, dominato dal “profumo della terra” a un “profilo oscuro”, soffocato dall’inevitabile e penetrante “forte odore di zolfo nell’aria, che, rinnovata dal vento, pur torna tosto a imbeversi dello stesso odore”. Tuttavia, benché martoriata dalla guerra, la montagna dà “riposo e protezione” ai soldati estenuati, che, nella profondità delle sue trincee, come se fossero le braccia di una madre, si abbandonano alla “tenerezza”.

Stuparich, Giani: Guerra del ’15 (dal taccuino di un volontario), Garzanti, Milano, 1940, pp. 117-127.